Una messinscena decisamente dal ritmo lento, come si dirà, quando l’intento dell’autore è quello di un’azione che corre impietosamente verso il tragico epilogo.
Per quanto riguarda la scenografia, l’azione dei cinque atti si svolge su un piano inclinato (troppo secondo me!), nel mezzo del quale alla fine un quadrato, mediante un marchingegno pneumatico, si innalza a formare un letto (non c’è quindi il classico letto con tanto di baldacchino, la cui immagine è ormai consolidata nello spettatore comune); l’inclinazione poi non agevola i movimenti degli attori che sono impacciati, innaturali, specie nei casi in cui alcuni personaggi vestono pesanti paludamenti, scarpe moderne e spade ricurve che fuoriescono dai mantelli.
In Otello (Sebastiano Lo Monaco), a parte la recitazione, che, per una mancata cura della dizione, rende poco perspicue alcune parti importantissime della tragedia, stonano molto certe mosse-piroette o certi giri clowneschi, per non parlare di certi ammiccamenti verso la ‘quarta parete’ che, se sono comprensibili, in una tragedia come Amleto, risultano assolutamente fuori luogo in questa tragedia dell’anima; la stessa gelosia di Otello appare più come il classico fulmine a ciel sereno di un vaudeville ottocentesco, e non c’è più quel sottile, bruciante e soffocante tarlo che rode il personaggio da dentro.
Il giovanissimo Massimiliano Vado, in Iago, affronta con onore il personaggio, e in effetti rende bene certi passaggi dell’azione in cui maggiormente sono presenti le pulsioni sulfuree del principe del male; ma certo manca ancora all’attore l’esperienza e una maggiore cura da parte del regista.
Forse qualcuno mi accuserà di essere uno accecato dal ricordo della coppia Gassman-Randone, ma, capirete, ho l’impressione che si sia passati da una splendida Ferrari a una Cinquecento un po’ scassata e anche sbiellata.
Non parliamo degli altri personaggi che fanno solo atto di presenza, compresa Desdèmona; la loro recitazione infatti si svolge atona e monocorde per tutta la durata dell’azione.
Anche il ritmo piuttosto frenetico del primo atto che, in Shakespeare, ha l’andamento di un prologo narrativo, rallenta troppo nel finale che si connota quasi come una ‘sceneggiata’, e nulla rimane di quella vendetta degli dèi che puniscono chi si è macchiato del peccato della 'ubris', di erodotea memoria, e cioè di quella tracotanza che conduce alla rovina coloro che dalla sorte sono stati baciati in modo troppo fervido e appassionato.
Per quanto riguarda la scenografia, l’azione dei cinque atti si svolge su un piano inclinato (troppo secondo me!), nel mezzo del quale alla fine un quadrato, mediante un marchingegno pneumatico, si innalza a formare un letto (non c’è quindi il classico letto con tanto di baldacchino, la cui immagine è ormai consolidata nello spettatore comune); l’inclinazione poi non agevola i movimenti degli attori che sono impacciati, innaturali, specie nei casi in cui alcuni personaggi vestono pesanti paludamenti, scarpe moderne e spade ricurve che fuoriescono dai mantelli.
In Otello (Sebastiano Lo Monaco), a parte la recitazione, che, per una mancata cura della dizione, rende poco perspicue alcune parti importantissime della tragedia, stonano molto certe mosse-piroette o certi giri clowneschi, per non parlare di certi ammiccamenti verso la ‘quarta parete’ che, se sono comprensibili, in una tragedia come Amleto, risultano assolutamente fuori luogo in questa tragedia dell’anima; la stessa gelosia di Otello appare più come il classico fulmine a ciel sereno di un vaudeville ottocentesco, e non c’è più quel sottile, bruciante e soffocante tarlo che rode il personaggio da dentro.
Il giovanissimo Massimiliano Vado, in Iago, affronta con onore il personaggio, e in effetti rende bene certi passaggi dell’azione in cui maggiormente sono presenti le pulsioni sulfuree del principe del male; ma certo manca ancora all’attore l’esperienza e una maggiore cura da parte del regista.
Forse qualcuno mi accuserà di essere uno accecato dal ricordo della coppia Gassman-Randone, ma, capirete, ho l’impressione che si sia passati da una splendida Ferrari a una Cinquecento un po’ scassata e anche sbiellata.
Non parliamo degli altri personaggi che fanno solo atto di presenza, compresa Desdèmona; la loro recitazione infatti si svolge atona e monocorde per tutta la durata dell’azione.
Anche il ritmo piuttosto frenetico del primo atto che, in Shakespeare, ha l’andamento di un prologo narrativo, rallenta troppo nel finale che si connota quasi come una ‘sceneggiata’, e nulla rimane di quella vendetta degli dèi che puniscono chi si è macchiato del peccato della 'ubris', di erodotea memoria, e cioè di quella tracotanza che conduce alla rovina coloro che dalla sorte sono stati baciati in modo troppo fervido e appassionato.