venerdì 28 marzo 2008

UN OTELLO MODERNO (?), MA PER CHI?



Una messinscena decisamente dal ritmo lento, come si dirà, quando l’intento dell’autore è quello di un’azione che corre impietosamente verso il tragico epilogo.
Per quanto riguarda la scenografia, l’azione dei cinque atti si svolge su un piano inclinato (troppo secondo me!), nel mezzo del quale alla fine un quadrato, mediante un marchingegno pneumatico, si innalza a formare un letto (non c’è quindi il classico letto con tanto di baldacchino, la cui immagine è ormai consolidata nello spettatore comune); l’inclinazione poi non agevola i movimenti degli attori che sono impacciati, innaturali, specie nei casi in cui alcuni personaggi vestono pesanti paludamenti, scarpe moderne e spade ricurve che fuoriescono dai mantelli.
In Otello (Sebastiano Lo Monaco), a parte la recitazione, che, per una mancata cura della dizione, rende poco perspicue alcune parti importantissime della tragedia, stonano molto certe mosse-piroette o certi giri clowneschi, per non parlare di certi ammiccamenti verso la ‘quarta parete’ che, se sono comprensibili, in una tragedia come Amleto, risultano assolutamente fuori luogo in questa tragedia dell’anima; la stessa gelosia di Otello appare più come il classico fulmine a ciel sereno di un vaudeville ottocentesco, e non c’è più quel sottile, bruciante e soffocante tarlo che rode il personaggio da dentro.
Il giovanissimo Massimiliano Vado, in Iago, affronta con onore il personaggio, e in effetti rende bene certi passaggi dell’azione in cui maggiormente sono presenti le pulsioni sulfuree del principe del male; ma certo manca ancora all’attore l’esperienza e una maggiore cura da parte del regista.
Forse qualcuno mi accuserà di essere uno accecato dal ricordo della coppia Gassman-Randone, ma, capirete, ho l’impressione che si sia passati da una splendida Ferrari a una Cinquecento un po’ scassata e anche sbiellata.
Non parliamo degli altri personaggi che fanno solo atto di presenza, compresa Desdèmona; la loro recitazione infatti si svolge atona e monocorde per tutta la durata dell’azione.
Anche il ritmo piuttosto frenetico del primo atto che, in Shakespeare, ha l’andamento di un prologo narrativo, rallenta troppo nel finale che si connota quasi come una ‘sceneggiata’, e nulla rimane di quella vendetta degli dèi che puniscono chi si è macchiato del peccato della 'ubris', di erodotea memoria, e cioè di quella tracotanza che conduce alla rovina coloro che dalla sorte sono stati baciati in modo troppo fervido e appassionato.

giovedì 27 marzo 2008

ANTIGONE


Quest’Antigone di Le Moli mi ha lasciato più che perplesso per vari motivi. Ha ragione Renato - nel blog segnalato – che dice: “è lo spettacolo più brutto degli ultimi 500 anni”. Molti – tra quelli che non si erano abbandonati tra le braccia del più allettante Morfeo – erano arrabbiatissimi. Nello specifico segnalo quanto segue:
  • Gli attori recitano le battute senza alcuna modulazione, come se leggessero un testo per la prima volta; la recitazione infatti è sempre monocorde e lunghe pause sono inframezzate nel bel mezzo della frase come se – è stato il commento di uno degli spettatori – gli attori non ricordassero la battuta. Peccato, perché la traduzione di Cacciari mi è sembrata di ottimo livello.
  • I costumi sono assolutamente impropri, con il non plus ultra in Tiresia: veste un bellissimo gessato scuro;
  • I personaggi non escono (quasi) mai dalla scena, ma di volta in volta si staccano dalla ‘parete rocciosa’ per recitare la loro parte e poi tornano a fare ‘le belle statuine ’;
  • Le musiche ‘originali’ (?) non aggiungono nulla alla bellezza della parola sofoclea, anzi spesso disturbano la percezione delle battute.

venerdì 21 marzo 2008

LA CITTA' RISORTA

Nei giorni 19-22 Marzo 2008 in scena al teatro Bellini di Palermo 'La città risorta' di Blaise Cendrars. L'autore, sconsolato precursore di Bruce Chatwin, che nel corso di una vita vissuta senza respiro e senza risparmio combatté per la Legione Straniera in Africa, dove fu ferito e mutilato a una mano, è stato il primo a coniugare in poesia il simbolismo liturgico all’analisi spietata del megacapitalismo americano. Evidente nel suo capolavoro Pasqua a New York (1912), che commosse fino alle lacrime Apollinaire, dove il moto inconsulto e febbrile della metropoli viene originalmente accostato alla solitudine senza scampo del deserto dove ruggiscono le belve indolenti e crudeli della fagocitazione e del cannibalismo. Una sintesi altissima e allucinata della vita moderna, dove la violenza della selva s’identifica nel grattacielo senza nome e senza causa e gli emigranti, gli hobo senza quartiere, i diseredati, le prostitute e i malati terminali sono icasticamente definiti «bestie da circo allenate al salto dei meridiani». I versi urticanti ma traboccanti pietas di Cendrars assurgono, in questo spettacolo, a simbolo di una città perduta – Palermo come New York e come le tante dolenti città del mondo – che cerca nella poesia il proprio riscatto e la propria rinascita.